LETTERA A FILIPPO PANANTI.
IL TERRORISMO CONTRORIVOLUZIONARIO IN TOSCANA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO.
PARTE TERZA
PROCESSO DI TERRORISMO POLITICO
Ricevo da Fabio Toccafondi per la pubblicazione.
Scritto da Fabio Toccafondi
La presenza dei francesi a Livorno nel 1796-97 non aveva diffuso le idee democratiche quanto si sarebbe potuto immaginare. Pochi proseliti, pochi uomini poche teste pensanti. La volontà del giovane Granduca e di pochi altri, alieni da eccessi e da persecuzioni, non poterono arginare la reazione ottusa e dura degli organi di governo e di giustizia. La repressione fu più grossa del fenomeno che combatteva e si volle andare a caccia di mosche con il cannone. Le voci di coloro che pur contrari alla rivoluzione chiedevano moderazione, rimanevano fioche e inascoltate. Forieri di incertezza e di inquietudine due episodi di segno opposto.
Primo episodio fu la deposizione presso Palazzo Vecchio a Firenze di un piccolo albero delle libertà con la scritta: “sei piccolo ma presto crescerai”.
Polizia in allarme, governo costernato, preti e frati predicavano che il fatto era dovuto alla mancanza di religione e bisognava quindi fare novene, tridui e processioni di penitenza.
Il secondo fatto fu la nomina di Luigi Cremani da Montisi, già lettore di diritto criminale all’Università di Pavia e da essa profugo perché avversario dei francesi, ad “assessore del supremo tribunale di giustizia”. Il Cremani era uomo di fredda intelligenza, dotto giurisperito, duro di cuore, assolutista di granito. Al rigore richiesto dalle talpe conservatrici parve ottimo strumemento ed antidoto contro la democrazia la nomina di un Torquemada Granducale. In questi frangenti le voci di congiure e di complotti di tutti contro tutti si alimentavano ciascuna del proprio fuoco cui portavano alimento combustibile i richiami al Granduca dei ministri dei ministri inglese e napoletano. Nella farsa di sbirri, di parrucconi e di reazionari coloro che sinceramente fedeli al giovane Granduca pur tuttavia sostenevano le riforme di Pietro Leopoldo ed in specie quelle di legislazione criminale, dovevano tacere per non essere guardati e spiati quali fautori sanguinari e figli della Rivoluzione francese. Ed il silenzio dei savi accresce la voce degli stolti.
Si cerca in questi casi da parte delle autorità di mostrare la forza, di applicare le sanzioni della legge nella loro feroce interezza, de perseguire irrevocabilmentenon solo chi siama altresì che sembri essere criminale. E lo spirito della legge viene offeso, distorto, asservito alla violenza dei tempi che per essere esercitata dall’autorità non perde, per ciò, carattere e natura di brutale ritorsione: la vendetta della legge è arbitrio.
Ecco che tal Orazio Dattellis, napoletano, addetto alla Deputazione milanese presso il direttorio di Parigi manifestò in Livorno, fino dal maggio 1797, l’intenzione di portare la democrazia in Toscana. Stabilì il Dattellis, allo scopo, dimora in Bologna e da qui cominciò a gettare reti e lacci sulla Toscana e venne più volte a Firenze intessendo anche varie tresche amorose, poiché la commedia italiana si alimenta della vita e spesso la trascende in una teriaca mista di politica e di donne.
La prova per un più vasto sommovimento fu la rivoluzione delle Contea di Vernio che cacciò i Bardi feudatari. Il Dattellis non fu estraneo a tale “rivoluzione” ed in Bologna si era associato a G. Battista Salucci, fiorentino, emigrato, ufficiale delle truppe cisalpine e con Leopoldo Micheli di Grosseto, che prometteva duemila butteri per la rivoluzione.
La risposta popolare non si fece attendere e alle chiamate rivoluzionarie risposero, a detta di un informatore degli sbirri, “tre o quattro coglioni pregiudicati”.
Il Dattellis fu attirato a Firenze dagli inganni amorosi allacciati con Violante Cipriani e arrestato il 10 aprile 1798 come accadde poco dopo al Micheli. Il Salucci rimase contumace.
All’assessore Cremani fu affidato il compito di compilare gli atti processuali. Il Bargello aveva i suoi infiltrati a Bologna e come confidente a Firenze la Violante Cipriani per mezzo della quale gli sbirri scrissero lettere per attirare il Dattellis in città.
La trama preparata a Bologna mirava a sovvertire l’ordine in Toscana, ormai circondata dagli stati repubblicani. L’assessore Cremani pronunziò la condanna per Dattellis a morte ignominiosa e infame unitamente al Salucci contumace. Il Micheli ebbe i lavori forzati a vita.
Si applicò la legge criminale con eccessivo rigore e con durezza inaudita e Pietro Leopoldo fu due volte tradito: per avere l’ottusa sbirraglia e tutta la classe reazionaria rifiutato le leggi illuminatte del 1786 obbligando il sovrano a reintrodurre l’antica legge criminale e forzandolo a smentire il suo animo e la sua stessa concezione di governo.
Eccettuato il Dattellis, gli altri arestati per il complotto erano già liberi il 27 aprile 1798 in applicazione delle leggi del 30 novembre 1786 e del 30 agosto 1795 che “vogliono che si abilitano dalle carceri più presto che sia possibile gli imputati di delitto anche gravissimo… quando le circostanze del fatto non danno motivo di credere che una più lunga detenzione… sia per far acquistar molto quanto alla sostanza della prova”, (Sommario del processo nel supremo tribunale di giustizia di Firenze contro Orazio Dattellis per tentata sollevazione etc, pag. 21, nota 2).
Scritto da Fabio Toccafondi
PARTE PRIMA: La rivoluzione del Granduca.
PARTE SECONDA: La risposta del Principe