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Fratellastri d’Italia: 800.000 soldati traditi, disprezzati, dimenticati

Ricevo da Fabio Toccafondi per la pubblicazione. Scritto da Fabio Toccafondi

La polemica intervenuta sui fatti dell’8 settembre 1943 tra politici italiani di diverso credo , è occasione per fare minima chiarezza su un fatto storico sostanzialmente semi ignorato dall’apparato dell’altare nazionale e abbandonato nel labirinto della memoria.

Dal passato ci sono pervenuti miti, leggende, storie di eserciti perduti nel nulla, di annate dissolte nella sabbia dei deserti, di flotte andate oltre il tempo conosciuto e lo spazio tracciabile. In stagione a noi più vicina è accaduta la (metaforica) “scomparsa” di circa 800.000 (G. Schreiber “I militari italiani internati nei campi di concentramento del terzo Reich, 1943-1945” pag. 455) militari italiani, fantasmi della storiografia patria, posti sul confine tra nulla e quasi nulla.

Le penne di storiografi appigionati sono state intinte, come è antico costume, in inchiostri colorati, per lo più rossi ma anche neri e talora biancastri. La storia degli anni terribili 1943-1945 è stata, almeno nella immediatezza post facta, scritta da chi ha vinto o da chi si è schierato con essi come se la memoria e la verità, quest’ultima nella sua approssimativa misura umana, appartenessero jure belli, ai sedicenti vincitori come spoglie e prede. Così è stato in antico per i popoli italici, per gli etruschi, per i celti.

È la damnatio memoriae di un’armata colpevole soltanto di fedeltà al re-simbolo, senza conoscerne il tradimento di fronte al nemico, di uomini che rifiutano di proseguire la guerra a fianco di un alleato mai desiderato, di un esercito di barbari guidato da un demone.

L’armata tradita ha trovato in patria, al ritorno, la tomba più profonda, l’oblio più sottile e viscido, l’indifferenza che spegne e uccide il cuore e la stessa memoria.

Con una firma sotto un giuramento di fedeltà al nazifascismo questi uomini sarebbero sfuggiti a 20 mesi di prigione infame. Non hanno aderito e sono rimasti nei lager. Dal 1945 la “Resistenza” viene celebrata come una festa comandata secondo un rituale stantio senza vita e senza cuore. Di questo esercito dimenticato se ne parla poco o nulla il 25 aprile.

Io propongo che il ricordo di questa armata silenziosa, lacera, pezzente e gloriosa sia celebrato il 26 aprile. Non li hanno voluti, se non tardi e di sfuggita, nella Resistenza ufficiale, allora gli 800 mila ne sono fuori, nel mutismo dei gridi del cuore, nel dolore infisso nella memoria. Non c’è da stupirsi: nella storia patria italiana gli omissis, il trasformismo, il falso per omissione costituiscono un canone e un sistema.

Ecco qualche esempio tanto per gradire: Carlo Alberto di Savoia che assiste con il suo esercito alla eroica sconfitta dei Toscani a Curtatone e Montanara; il Conte di Cavour tresca amabilmente con nobili, ministri e generali per “ammorbidire” l’impresa di Garibaldi in Sicilia, assicurata per altro dalla vigile scorta della flotta inglese; i tanto sbeffeggiati Borbonici combatterono con grande valore l’ultima battaglia sul Volturno contro i garibaldini: un bagno di sangue tutto italiano; – l’ultimo re di Napoli “Franceschiello” e la sua regina stanno nobilmente dentro Gaeta, assediata dai piemontesi venuti a raccogliere i frutti di Garibaldi, fino all’esplosione del colera; – l’Italia viene coinvolta nella prima guerra mondiale dal tradimento del Re e del suo primo ministro che si impegnano ad intervenire nel conflitto entro il 31 maggio 1915 all’insaputa del parlamento dopo un’orchestrata campagna propagandistica post risorgimentale condotta da un variegato circo politico del quale fanno parte D’Annunzio, Mussolini, i futuristi.

Cui prodest, anzi cui profuit la cancellazione o almeno l’imbiancamento nella storiografia e nella Resistenza triumphans della massa “grigio verde” degli 800.000? Molti erano (e sono) interessati ad accomunare nella sconfitta del fascismo ed in una guerra pereduta la dissoluzione del “regio esercito” senza distinguere con dolorosa cecità i comportamenti, i ruoli, la lealtà, la fierezza anche nella sconfitta, di una generazione bruciata da una guerra imposta da un tiranno ed assentita da un Re di latta.

Un piccolo elenco di ipotesi (che sono certezze):

  • il partito comunista italiano auto nominatosi titolare del potere di scegliere chi appartenesse o meno alla resistenza, non tollerava attentati alla sua egemonica “purezza della fede, antinazifascista”. Alessandro Natta, quondam segretario del P.C.I., ufficiale di complemento, appartenne all'”armata inesistente” e solo nel 1997 riesce a pubblicare presso Einaudi il suo libro L’altra resistenza, i militari italiani in Germania e dichiara “di aver scritto nel 1954 una riflessione-testimonianza su quella esperienza come fatto non meramente personale … la casa editrice del suo partito, il P.C.I. non ritenne allora, a dieci anni dalla liberazione di dover pubblicare il libro”. (A. Natta op. citata introduzione pag. V);
  • gli ex o non ex fascisti repubblichini dichiarati o in interiore homine che trovavano ingombranti, scomodi e testimoni irrefragabili i morti e i vivi dell'”armata invisibile”, vittime dell’atroce disumanità dei camerati tedeschi con i quali collaboravano nella Repubblica di Salò;
  • i c.d. “poteri forti”, e cioè tutti i “padroni del vapore” che avevano propiziato il fascismo e poi lucrato sulla sua attitudine guerresca.

Era conveniente per tanti, tantissimi, forse per tutti coloro che avevano una qualche “voce in capitolo”, “sopire e troncare” la scomodissima realtà di una massa enorme di soldati che ormai apparivano “a Dio spiacenti e alli nimici sui” poiché, a mani nude, avevano resistito (e vinto!), unica vera ed effettiva vittoria nello sfascio dell’esercito e dello stato dal 1943 al 1945, la ferocia, la satanica volontà e l’odio di un’armata di demoni. Chiamare eroi una moltitudine anonima di “Somacal Luigi” (per dirla con Pier Jaier) appariva bestemmia (o semplicemente e cinicamente non utile) a chi aveva già distribuito patenti di eroismo, medaglie, onorificenze, onori, monumenti, nastrini, diplomi etc.

Non c’era più posto sul carro dei vincitori e sugli altari della gloria patria, la ressa degli aspiranti eroi era enorme ed i sopravvissuti dell’armata dimenticata non chiedevano nulla, semplicemente tacevano e hanno taciuto. È degno di nota che l’opera più completa sull’argomento nasca da penna tedesca: I militari italiani internati nei campi di concentramento del terzo Reich, 1943-1945, traditi, disprezzati, dimenticati, “del Capitano di Fregata della Bundesmarine Dr. Gerhard Schreiber”, (Stato maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico. Roma, 1997). Più nulla né prima né dopo.

Di che ha paura lo stato maggiore dell’esercito? In 148 di storia unitaria italiana non ci sono altri fatti memorabili ed esemplari compiuti, con rischio quotidiano della vita, da una massa così grande di italiani appartenenti alle forze armate. Che cosa significa “unità nazionale” se non chiamano con il loro nome le azioni dei cittadini?

A titolo di sconcertante paradigma stanno la disconoscenza di questa tragedia tutta italiana e le nebbie ideologiche.

Nella prefazione del volume di Vittorio Vialli: Ho scelto la prigionia. La resistenza dei soldati italiani deportati 1943-1945. Editrice Forni, Bologna 1975, Sandro Pertini parla “della spaventosa tragedia dei non traditori”. Le parole sono fatte di aria ma pesano come pietre: definire in negativo (“non traditori”) i militari italiani che non passarono ai nazifascisti indica il limbo mentale (e storico!) in cui sono irretiti coloro che non vogliono riconoscere centinaia di migliaia di soldati italiani (a rischio quotidiano della vita) rimasti fedeli al giuramento e al loro paese.

ALCUNI FATTI

I tedeschi convogliano in Germania circa 800.000 militari e li privano di tutto anche della qualifica di “prigionieri di guerra” inventando per loro e solo per loro quella di I.M.I. “internati militari italiani” sul presupposto della illegalità di diritto internazionale del governo regio e della legalità del governicchio fantoccio di Salò. Essere I.M.I. significava non aver diritto al trattamento dei prigionieri di guerra che fruivano delle minime condizioni di spravvivenza e della assistenza della Croce Rossa Internazionale.

Su quest’ultima organizzazione ci sarebbe, in proposito, molto da dire perché ha ignorato 800.000 esseri umani. I.M.I. significava in estrema sintesi non mangiare, vivere come fantasmi senza essere morti, tra insulti, percosse, umiliazioni, non avere infermerie degne diquesto nome, essere trattat iin maniera disumana. (Pietro Testa Vietzendorf. Centro studi deport. e intern. pag. 133 e s.s. Roma, Maggio 1973).

Dopo la deportazione arrivarono nei lager gli imbonitori nazifascisti, militari repubblichini e tromboni vari per convertire i soldati italiani all’adesione al duce ed a continuare la guerra a fianco della Germania. I tedeschi stabilisono un termine entro il quale si può aderire (“optare”). Il giuramento richiesto agli italiani stabiliva obbedienza incondizionata “al comandante supremo dell’esercito tedesco Adolfo Hitler…” La propaganda subdola degli emissari repubblichini (“pensate alle vostre famiglie… potrete tornare in Italia… avrete subito cibo…) la fame devastante, il freddo, il terrorismo psicologico dei “camerati tedeschi”, la crisi d’identità di persone prive di riferimenti certi a livello nazionale insieme alla mancanza di notizie sulla situazione in Italia, l’inesistenza perfino di una qualificazione giuridica precisa e nota di diritto internazionale in ordine alla loro deportazione, l’abbandono ed il silenziodegli inetti che alla guida del governo nazionale avrebbero dovuto indicare la meta ed il cammino, indussero unaseppur minima parte degli 800.000 ad “optare” per i tedeschi e per la crepuscolare repubblica.

“Sul totale delle adesioni alla RSI non esistono dati ufficiali… (Giorgio Rochart Memorialistica e storiografia sull’internamento pag. 35, 36. Atti del convegno studi, Firenze, 14, 15 novembre 1985. Ed. Giunti). “Come ipotesi di lavoro… diciamo che le adesioni alla RSI furono certamente più di 5.000 e raggiunsero probabilmente un quarto dei 30.000 ufficiali. Va sempre sottolineato… che gli internati militari italiani furono probabilmente gli unici tra i milioni di prigionieri in mano ai tedeschi ai quali fu offerto un rimpatrio in massa e che questo rimpatrio rifiutarono in larga maggioranza”. “I numeri delle adesioni alla RSI si conoscono per Corinto, Iuckenwalde, Benjaminovo, Przemysl. Per il campo di Biala Podiaska abbiam ocifre sufficientemente precise e confermate da più autori: nel gennaio 1944 solo 144 ufficiali su 2.400 (145 su 2.600 secondo un’altra fonte) rifiutarono di aderire alla RSI in quella che fu la più grave crisi morale di tutto l’internamento”.

Dagli “appunti storici” del S. Tenente Donato Esposito, matr. 347, presente a Biala Podiaska e non “non optante” risulta che non passarono ai tedeschi 147 su 2.600 ufficiali. Anche il padre di chi scrive era tra i 147.

G. Schreiber (op. cit. pag. 518) scrive che Biala Podiaska “passarono dall’altra parte 2.256 o addirittura 2.455 ufficiali internati”. La stragrande maggioranza di tutti gli ufficiali deportanti non passò, comunque, ai tedeschi e alla repubblichina. “I motivi del rifiuto di una qualsiasi forma di collaborazione con il regime fascista e nazionalsocialista nascevano… dalla volontà di mantenere fede al giuramento prestato al sovrano, dal rispetto di se stessi suscitato in particolar modo dal trattameto ricevuto dai tedeschi… (G. Schreiber op. cit. pag. 553).

Per quanto concerne i soldati che preferirono l’arruolamento con i nazifascisti alla prigionia non si dispone di dati certi (G. Rochat, op. cit. pag. 49). “Con ogni probabilità… volendo azzardare una percentuale puramente indicativa diremmo vicino al 10%… (op. cit. pag. 50).

Queste note vogliono essere testimonianza e non indagine storica. Ma dalle vicende narrate emergono tanti, troppi “perché” irrisolti. Perché suquesti militari che hanno vinto una terribile prova è caduta, dopo il loro rimpatrio, una poco penetrabile ma solidale (“di tutto l’arco costituzionale”!) cortina di silenzio e dimenticanza?

Perché com’è scritto nel sottotiolo dell’opera di G. Schreiber più volte citata sono stati “traditi, disprezzati, dimenticati”?

Se è lecito proporre una ipotesi: era più facile dire “no” tutti i giorni in un lager o in una fabbrica tedesca per 20 mesi o fare la guerriglia sui monti?

Perché in un paese che gronda retorica, medaglie, attestati, titoli e riconoscimenti a nessuno degli 800.000 e neppure a quei 144 o 147 di Biala Podiaska è stato dato un cencio dalla “patria riconoscente”? E chi aveva titolo a “disprezzarli” in un epoca di banderuole?

Non so se gli oramai pochissimi sopravvissuti vorrebbero ancora delle risposte. Uno di loro al ritorno scrisse: “non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo, la fame, la sporcizia, le malattie, la disperata nostalgia dellenostre mamma e dei nostri figli, il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti. Non abbiamo mai dimenticato di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire” (Giovanni Guareschi, Diario clandestino pag. XII).

La conclusione nell'”ordine del giorno della liberazione” (dai tedeschi n.d.e.) del comando del campo italiano “83”.

Wietzendorf 16 aprile 1945 ore 17,31

Ufficiali e sottufficiali, soldati italiani del campo 83 di Wietzendorf, siamo liberi!

Le sofferenze di 19 mesi di internamento peggiore di mille prigionie sono finite. Abbiamo resitito nel nome del re e della Patria. Siamo degni di ricostruire.

Ufficiali, sottufficiali e soldati italiani!

Ricordiamo i nostri morti, morti di stenti ma fieri nelle facce sparute sotto gli abiti a brandelli, con una Fede inchiodata alta come una bandiera, salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbimo far risorgere.

Il comandante. Ten. Col. Pietro Testa.

W il Re.

W l’Italia

W le Nazioni Alleate”

Nemmeno una parola di odio per tedeschi e repubblichini.

Forsan et haec olim meminisse jubavit.

Scritto da Fabio Toccafondi