Scritto e ricercato da Marco Ramerini – Aprile 2023
INTRODUZIONE
Questa breve ricerca fatta sulle carte di un processo criminale ci apre un piccolo squarcio nella vita che vivevano le persone comuni in un area di campagna della Toscana centrale tra Firenze e Siena. Si narra di un fatto avvenuto alla fine del cinquecento, ci troviamo alla fine del Rinascimento, un’età di cambiamento, dove era maturata una nuova concezione di concepire il mondo e se stessi, ma dove ancora persistevano profondamente usanze e atteggiamenti che avevano le loro radici in un lontano passato. Si scoprono le credenze e le supersizioni dell’ambiente contadino dell’epoca, i metodi di cura dei guaritori e le malie delle streghe. Si ha una piccola visione su quelli che erano i rapporti tra le persone, sulle malattie, le morti frequenti, e sull’estrema povertà. Si capisce che già a quell’epoca queste persone si spostavano molto, la protagonista della storia la povera Meia veniva dalla Romagna, ma anche i semplici contadini cambiavano spesso abitazione e si trasferivano spesso da un podere all’altro in cerca di lavoro. Fa da sfondo a tutta la vicenda la linea sottile tra guaritori/guaritrici e maghi/streghe che spesso a quell’epoca poteva portare ad indicibili supplizzi e talvolta persino sul rogo.
CHI ERA DONNA MEIA
Meia diminuitivo di Bartolomea nel marzo 15941 era un’anziana donna proveniente da un luogo imprecisato della Romagna che negli ultimi 25 anni aveva vissuto in vari luoghi della podesteria di Barberino Val d’Elsa.
La donna era conosciuta anche come Meia di Antonio Fignali (o Fignani in un’altra testimonianza), prete di San Bartolomeo a Palazzuolo, perché in passato era stata serva di questo parroco. Meia fece la serva del parroco fino alla morte dell’uomo, che era avvenuta 12 o 15 anni prima del 15942 “potettero correre da dodici, o quindici anni”. Dopo la morte del parroco Meia aveva vagato senza fissa dimora “non ha mai hauto luogo fermo” in varie località delle podesterie di Barberino (come a Linari e Vico) e di Poggibonsi, ma anche a Siena e “in altri luoghi circumvicini”.
Al momento del processo (1594) Donna Meia abitava nel castello di Poggibonsi nelle case di Santa Maria Nuova di Firenze.
Meia era cieca ad un occhio, anziana e molto povera, per vivere chiedeva l’elemonsina. L’aspetto di Meia doveva richiamare proprio quello di una classica strega ed è probabile che l’aspetto abbia influenzato molto le dicerie popolari.
Meia aveva una figlia, Betta (Elisabetta), che viveva a Vico d’Elsa. Questo è l’unico legame famigliare della donna che conosciamo. La figlia Betta era sposata ed aveva due figlie femmine e due figli maschi (un’altro testimone parla di due femmine e di un solo figlio maschio), il maggiore dei quali aveva 12 anni. Betta era stata sposata con Raffaello Renzi (un altro testimone lo chiama Lenzi) da Tignano. In passato, prima della morte dell’uomo3, Raffaello (Fello) Lenzi (Renzi?) abitava a Vico con la moglie Betta e assieme a loro abitava anche Meia. Il Lenzi (Renzi?) però era morto e la figlia di Meia era rimasta vedova, e all’epoca di questi fatti si era risposata con Austino Baroncini di Vico. Non è chiaro di quali dei due mariti fossero i quattro figli, ma certamente il maggiore che aveva 12 anni era del primo matrimonio e probabilmente anche gli altri.
Nella popolazione della zona la donna, probabilmente per il suo aspetto e la povertà della sua vita era conosciuta da tutti come una strega. “Nel Castel di Vico la detta M.a Meia è tenuta per strega da ognuno, e da tutti è cacciata via”4, “fra la gente de dieci nove dicano che ella è strega”.5 Molti abitanti di Vico d’Elsa dicevano che Meia era una strega, tra loro vengono citati Giovanni di Piero Tonelli, Chele (Michele) di Piero Bello, Chele (Michele) di Piero Nannoni, Piero del Busca e il Rosso Marini.6
L’ostracismo nei confronti di Meia è anche da parte della sua stessa famiglia “anzi perché quelli suoi più degl’altri la scaviano”. Il genero di Meia, Austino Baroncini, fu sentito dire da Baccio del fu Paolo Bandini da Vico Val d’Elsa “io questa vecchiaccia […] non la voglio più in casa, perché è una strega, et se ci viene la voglio bastonare”. Non è detto che l’ostilità della famiglia sia stata effettivamente così cruda, ma è probabile che anche i suoi parenti preferissero non averci niente a che fare a causa della nomea della donna. In questo periodo storico, alla fine del cinquecento, le donne accusate di essere streghe venivano spesso arse vive dopo essere sottoposte a torture indicibili per costringerle a confessare i presunti crimini. E sotto tali torture si arrivava a dichiarare qualunque cosa volesse sentirsi dire l’aguzzino.
IL PROCESSO
Siamo nel marzo 1594. Il processo si svolge alla presenza di messer Pier Antonio del fu Angelo Formichi, senese e notaio della curia di Colle Val d’Elsa. Gli interrogatori dei testimoni si svolgono tra il 14 e il 15 marzo 1594 a Colle Val d’Elsa, da poco divenuta sede vescovile. La diocesi di Colle di Val d’Elsa era stata eretta il 5 giugno 1592 con la bolla “Cum super universas” di papa Clemente VIII.
Nelle carte del processo compaiono solo cinque testimoni, tre vivono a Vico d’Elsa, uno a Barberino Val d’Elsa e uno nel contado di San Gimignano vicino ad Ulignano. I loro nomi sono: Gregorio di Bartolomeo Leoncini da Vico Val d’Elsa, potesteria di Barberino, diocesi di Firenze, 21 anni, marito di Maddalena del fu Jacomo di Giovanni Ambrogini; Marco del fu Simone Bartaletti, del “comitatu” di San Gimignano, popolo di “Montisgompoli” (Montegonfoli, un podere tra Vico e San Gimignano), 45 anni lavoratore giornaliero; Baccio del fu Paolo Bandini da Vico Val d’Elsa, popolo di San Michele, 43 anni, lavoratore della terra; Niccolò del fu Domenico Capalli, abitante al presente nel comune di Vico Val d’Elsa, popolo di San Michele, 38 anni, lavoratore della terra e Giovanni di Paolo Petri da Barberino Val d’Elsa, 37 anni, messo pubblico ed esecutore di giustizia della podesteria di Barberino.
Tra i cinque testimoni il messo pubblico della podesteria di Barberino Giovanni di Paolo Petri da Barberino Val d’Elsa è quello che fornisce più informazioni sulla vita di Meia, l’uomo conosce Donna Meia da circa 25 anni, da quando era fante da Goro Fignani fratello del curato di San Bartolomeo a Palazzuolo dove Meia era serva.
LE ACCUSE
Secondo le dicerie del popolino Meia “guastava” i bambini, faceva ammalare e morire le persone, faceva seccare le piante, chiedeva di allattare i rospi. Ma nessuno dei testimoni ha mai visto Meia fare “malie o stregonerie”, ma tutti sanno che le fa.
MALIA AD UNA DONNA
Maddalena Ambrogini, moglie di Gregorio (Goro) di Bartolomeo Leoncini da Vico d’Elsa si era ammalata di una grave malattia la prima domenica di settembre 1593 e si dice che fosse stata “guasta” proprio da Donna Meia “habbia guasto, e stregonato Madalena”. Nel dicembre 1593, poco dopo Natale, Giovanni di Paolo Petri messo pubblico ed esecutore di giustizia della podesteria di Barberino “mossomi a compassione” andò a trovare Meia a Poggibonsi e trovandola lungo la Strada Maestra portò la donna in una “stanza a terreno” dell’Osteria del Leone e l’accusò di aver fatto una malia a Maddalena di Goro Leoncini e gli disse che se non avesse guarito dalla malia la donna avrebbe portato Meia a Firenze “per fare un fuoco del fatto vostro”. Ma Meia negò di aver fatto una simil cosa, Giovanni minacciandola ancora la costrinse a confessare. Meia raccontò che era stata la nipote che abitava a Vico a dare la malia a Maddalena e la malia le era stata data in una “susina simiana”7.
Giovanni così si recò a Vico dove trovò la ragazza che stava aiutando un contadino con le olive. L’uomo la portò in casa e gli disse di rivelargli la malia che aveva fatto a Maddalena, in un primo momento la ragazza negò, non sapeva niente essendo lei “fanciulla”. Ma poi dopo varie minacce tra cui quella “di fare un fuoco de fatti tuoi” la ragazza gli disse di andare alla Porta Castellana e di guardare nel punto dov’è “stracciato il muro” dove troverai tra due mattoni uno “stelo di Ginepro, cava quel fuscello che vi è il legame che tu cerchi”.
Giovanni si recò subito sul posto e trovò un “rinvolto” con pezzi secchi forse di susina e buccia secca di arancio o limone, poi c’era una carta unta con scritte delle lettere o parole, che però Giovanni essendo analfabeta non potè capire. Tornato a casa della nipote di Meia il “rinvolto” fu bruciato e Maddalena guarì, per circa un mese Maddalena stette bene, ma adesso la donna è nuovamente malata “e sta peggio che mai”.
GIOVANI “GUASTI”
Niccolò del fu Domenico Capalli abitante a Vico d’Elsa racconta di un fatto che riguarda Caterina, moglie di Nencio Gorini, che tre anni prima abitava a Vico e adesso abita in Pesa. Caterina aveva un figlio che stava male e un giorno passò da casa sua Meia che volle vederlo per curarlo, la vecchia diagnosticò “che aveva i bachi” e poi il bambino “si consumò a poco a poco et si morì”, da questo episodio Caterina pensò che fosse stata Meia a far aggravare il bambino.
Meia viene accusata di aver “guastato” una ragazzina a Marco del fu Simone Bartaletti del popolo di Montegonfoli, un podere non lontano da Ulignano, il fatto però era avvenuto 4 anni prima “mi guastò da quattro anni in circa una citta”. La famiglia di Marco viveva all’epoca nel podere la Ripa8 di messer Austino Tani nella villa di Mucchio nel contado di San Gimignano. Un giorno Meia giunse a casa di Marco a chiedere l’elemosina e vi trovò in casa da sola Margherita, la figlia di Marco, una ragazzina di 9 anni. La giovane dette alla donna “del pane et da bere”, poi Meia le chiese dei fichi secchi, che però non c’erano in casa, al che Meia disse alla giovane che “se tu non me ne dai te ne pentirai et così si partì subbito”. Dopo la partenza della vecchia, la giovane trovò una mela “giù per la scala di casa, la prese e se la mangiò”, il testimone suppone che la mela l’avesse lasciata Meia. Dopo solo tre ore Margherita iniziò a star male, e ogni giorno che passava la salute della ragazza peggiorava, “non poteva mangiare, né bere, né vestirsi”. Il padre allora decise di ricorrere alle cure di Lorenzo Sorrantelli che abitava nel contado di Colle. L’uomo, evidentemente un guaritore, venne per tre volte a casa di Marco a medicare la figlia e con “herbe et orazioni la guarì”. La malattia di Margherita era durata tre mesi.
Marco Bartaletti racconta anche un altro episodio. Meia aveva “guasto” anche un figliolo a Mone (Simone?) Bavani mugnaio a San Galgano. Il mulino di San Galgano si trovava lungo il fiume Elsa poco a nord di Ulignano. Anche in questo caso la vecchia era andata in casa del mugnaio e una volta uscita dalla casa il bambino aveva cominciato a gridare, da questo momento in poi il bambino “si consumò, che non li rimase altro che l’ossa, et si morì”.
Giovanni di Paolo Petri, messo pubblico della podesteria di Barberino racconta di un fatto a lui accaduto che riguarda un suo figlio che era molto ammalato. Non trovando soluzione alla malattia del figlio. Giovanni si recò con il bambino alla Paneretta a trovare Antonio di Santi Bruni, evidentemente un altro guaritore locale, che gli fece presente che certamente al piccolo gli era stata fatta una malia. Subito Giovanni sospettò che fosse stata Meia e quindi andò a trovarla a Poggibonsi dove abitava. All’inizio Meia negò tutto “stette nela negativa”, ma poi “doppo lungo contrasto” e varie minacce la donna “disse […] la verità” e cioè che “l’haveva guasto”. Meia raccontò a Giovanni che lei era stata a casa sua tre volte a chiedere l’elemosina e la moglie di Giovanni non gli aveva voluto dare niente, salvo la terza volta che gli dette del pane che aveva in mano il bambino. Al che Meia “sdegnata” si avvicinò al bambino accarezzandolo e così lo “guastò”. Dopo questo fatto il bambino per tre mesi ebbe “il braccio dritto infiato et grosso più che la mano, et un braccio d’homo et ogni dua, o tre giorni rinnovava la scorza”, poi il male coinvolse tutto il corpo del bambino. Il bambino fortunatamente guarì dopo che Antonio di Santi Bruni della Paneretta lo medicò con “orazioni” che gli leggeva da un libro e “segnandolo con segni di croce”. Il guaritore si era fatto portare tre indumenti del bambino: “una camicina, un par di maniche, et una pezza lina tutte adoperate”.
ROSPO E LATTE
Un altro episodio raccontato da Giovanni di Paolo Petri avvenne nel popolo di San Jacomo a Magliano9, una località vicino all’attuale Tavarnelle Val di Pesa, dove all’epoca abitava anche Donna Meia.
Andrea donna del già Piero di Gianni Mugnaini che abitava da circa 16 anni nella Casa Nuova10 nel popolo di Magliano aveva un bambino nato da poco e lo stava allattando. Un giorno Meia andò a trovarla a casa con una “botta”11 e chiese alla donna un “servizio” e cioè che si attaccasse al petto per tre giorni continui e tre volte al giorno il rospo, lasciandogli succhiare una goccia di latte per volta. Passati i tre giorni Meia sarebbe ritornata donandole in cambio del “servizio” tre staia di grano. Donna Andrea però si rifiutò categoricamente di fare questa cosa “Dio me ne guardi, ch’io voglia far tal cosa levatemela dinanzi”.
Meia allora andò da un’altra donna, Betta moglie di Niccolò Gremigni, che allora viveva a Vigliano12 (ma che all’epoca del processo nel 1594 viveva “ale Tavernelle”) e gli chiese lo stesso tipo di favore, ma Betta, alla proposta reagì in malo modo “prese il sruccatorio del forno, et disseli se non mi vi levate d’intorno vi darò dele legnate, stregaccia”.
Dopo questo fatto Meia ritornò a Magliano dove nell’orto13 raccolse un insalata e la sera stessa o il giorno dopo ritornò alla Casa Nuova da Donna Andrea e gli regalò l’insalata. La sera stessa per cena Andrea fece l’insalta portata da Meia e subito dopo averla mangiata “cadde subbito sotto la tavola stramortita”. La donna si riprese e raccontò l’accaduto ai famigliari, qualcuno di loro andò così a Magliano a prendere Donna Meia e la portò a forza alla Casa Nuova intimandole di guarire Donna Andrea minacciandola “vi voglio scannare” se non la farete guarire “et finalmente prima, che ella partisse la guarì”.
ALBERI SECCHI
Niccolò del fu Domenico Capalli, abitante a Vico Val d’Elsa racconta un episodio avvenuto due anni prima. Un giorno Meia stava camminando lungo un viottolo nei terreni del podere degli eredi del sig. Giuliano Ricasoli dove Niccolò abitava, che si trovava nei pressi di Iulignano (Ulignano) ma nel popolo di San Michele a Vico. La donna si fermò a poca distanza da un albero di Melo Appiolo14 e sembrava che raccogliesse dell’insalata o dei legnetti per il fuoco, ma “da li, et quattro giorni il detto melo si seccò”. Una domenica andando alla messa, Niccolò si mise a parlare con altri uomini di come si fosse seccato tale albero, uno di questi uomini chiese chi fosse passato da li prima che il melo si seccasse, una volta saputo che c’era passata la Meia uno degli uomini disse “se c’è passata quella non accade altro”.
EPILOGO
Il giorno successivo all’ultima testimonianza d’accusa, il 16 marzo 1594, Meia viene arrestata a Poggibonsi da Matteo Romagnolo, messo pubblico, la donna fu portata a Colle su un cavallo. In possesso di Meia furono trovate “lire 30, di denari: in due piastre, tanti testoni, et cratie quali sono in una borsina di pannolino, et altri stracci involti et pui un coltellino con manica d’osso che si serra”.15
Il 23 marzo 1594 viene stilato da parte di Marcantonio Borghi da Modigliana16 l’inventario delle cose trovate in casa di Meia. Tra le poche cose possedute dalla donna sono citate “un legname da letto cattivo con suo saccone”, “una coltrice17 di penna … buona”, “una schiavinazza18 et un guanciale”, “2 paia di lenzuola usate”, “una tovaglia”, “4 camise usate”, “un braccio di pannolino grosso novo”, “7 facioletti da collo et uno sugatorio”, “5 cuffie usate”, “2 sacchi, 2 grembiule di seta, 2 paia di calze, 2 paia di scarpazze et un paio di pianelle19, 2 casse cattive”, “2 coltelli, 2 grenate, 2 fiaschi ad olio et 4 stovigliazze”, “un poco di farina con delle fave”, “una segiola con apogiatoio et uno sgabello a 3 piedi”. Il 28 marzo vengono pagati a Marcantonio Borghi 13 soldi per aver fatto l’inventario.
In data 31 marzo 1594, si conosce l’epilogo della storia della povera Meia, sono riportate le seguenti parole “Hon. Vir ser Julius Fatius miles socius Mag.li Potestatis Collen. p.ti et retulit d. D. Meiam obiisse in carceribo secretis”: “L’onorevole sig. Giulio Fazio, soldato, membro dei Mag.li della podesteria di Colle ha riferito che detta Donna Meia era morta in prigione”. Quindi probabilmente il 31 marzo 1594 la donna, che evidentemente era rimasta incarcerata per circa due settimane, era morta. Chissà, forse a causa delle torture a cui era stata sottoposta?
Il cancelliere dell’episcopato di Colle, Pietro Antonio Formichi, assieme al soldato che riporta la notizia, Giulio Fazio, al cancelliere Cheluzzo Cheluzzi e ad altri due testimoni si recarono nelle carceri per ispezionare le cause della morte della donna e giungono alla conclusione che Meia morì di cattiva salute, e non di forza “Meia perisse mala valetudine, et non vi”.20
TESTIMONIANZE
14 marzo 1593 (1594): Gregorio di Bartolomeo Leoncini da Vico Val d’Elsa, potesteria di Barberino, diocesi di Firenze, 21 anni, marito di Maddalena del fu Jacomo di Giovanni Ambrogini (f. 1r-2v)
14 marzo 1593 (1594): Marco del fu Simone Bartaletti, del “comitatu” di San Gimignano, popolo di “Montisgompoli” (Montegonfoli, un podere tra Vico e San Gimignano), 45 anni lavoratore giornaliero (f. 3r-4v)
14 marzo 1593 (1594): Baccio del fu Paolo Bandini da Vico Val d’Elsa, popolo di San Michele, 43 anni, lavoratore della terra (f. 5r-6r)
14 marzo 1593 (1594): Niccolò del fu Domenico Capalli, abitante al presente nel comune di Vico Val d’Elsa, popolo di San Michele, 38 anni, lavoratore della terra (f. 6r-8v)
15 marzo 1593 (1594): Giovanni di Paolo Petri da Barberino Val d’Elsa, 37 anni, messo pubblico della podesteria di Barberino (f. 9r-14r)
Inventari (senza numero)
DOCUMENTI
ARCHIVIO ARCIVESCOVILE DI COLLE -CAUSE CRIMINALI: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola
NOTE:
1Nel documento l’anno indicato è il marzo 1593, ma la data è nel calendario fiorentino il cui capodanno era il 25 marzo. Quindi l’anno riportato al calendario odierno è il 1594.
2Quindi la donna era rimasta a servizio del parroco presumibilmente fino al 1579 o 1582.
3Un testimone dichiara che Raffaello era vivo 4 o 5 anni prima, quindi l’uomo doveva essere morto dopo il 1590.
4Archivio Arcivescovile di Colle Val d’Elsa: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola, f. 5r
5Archivio Arcivescovile di Colle Val d’Elsa: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola, f. 6v
6Archivio Arcivescovile di Colle Val d’Elsa: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola, f. 7r, 8r
7Un tipo di susina.
8Un podere nei pressi di Ulignano.
9Magliano è un popolo situato a breve distanza da Tavarnelle Val di Pesa.
10La Casa Nuova è presente nella Mappa del Catasto Toscano.
11Nome toscano del rospo.
12Vigliano è un popolo vicino a Magliano, che si trova tra Magliano e Marcialla.
13Il testimone dice che all’epoca dei fatti il curato di Palazzuolo Antonio Fignani era ancora vivo e pare chel’orto fosse del curato, evidentemente all’epoca è possibile che il curato di Palazzuolo si occupasse anche del popolo di Magliano. Quindi l’episodio raccontato doveva essere avvenuto almeno 12 o 15 anni prima, visto che il curato di Palazzuolo, all’epoca del processo, era morto da 12 o 15 anni.
14Il melo appio (o appiolo), è l’albero che produce la varietà di mele appie (o mele appiole).
15Archivio Arcivescovile di Colle Val d’Elsa: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola, foglio non numerato al termine del processo
16Modigliana è una località dell’Appennino Romagnolo che all’epoca era parte del Granducato di Toscana.
17Materasso.
18Anche “schiavina”: Mantello, caratteristico degli Slavi di Slavonia, di panno grosso e rozzo e di colore scuro, con maniche e cappuccio.
19Calzatura da casa, aperta posteriormente in corrispondenza del calcagno.
20Archivio Arcivescovile di Colle Val d’Elsa: 228 – Anno 1593 (1594) – Processo criminale contro Donna Meia Romagnola, foglio 14v
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