LETTERA A FILIPPO PANANTI.
IL TERRORISMO CONTRORIVOLUZIONARIO IN TOSCANA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO.
LA PENA DI MORTE
PARTE SECONDA
LA RISPOSTA DEL PRINCIPE
Ricevo da Fabio Toccafondi per la pubblicazione.
Scritto da Fabio Toccafondi
Ed è il “dispaccio primo di Leopoldo alla Reggenza concernente il tumulto accaduto in Firenze del giugno del 1790”. Il Principe esprime, prima di ogni cosa, “dispiacere sommo e indignazione”. Osserva “che mediante una truppa di popolo della più bassa classe si sia ottenuto di rovesciare in pochi giorni tutti i sistemi di governo da me in tanti anni di tempo e fatiche introdotti e con tanto buon successo stabiliti in vantaggio del pubblico”. L’amara delusione del Principe è tinta di dolore, di stupore e di fede tradita onde i provvedimenti che ne conseguono suonano non tanto e non solo castigo e punizione di un popolo imbelle e stupido, quanto forzato ritorno all’ancien regime ed ai brutali e incivili mezzi di repressione e di governo che, soli, paiono assicurare l’ordine pubblico: deportazione e pena di morte.
“Gli autori e i fomentatori” dei tumulti di Firenze e dei saccheggi una volta arrestati… e processati, se colpevoli, saranno imbarcati su “bastimenti da guerra” chiesti alla Corte di Napoli la quale impartirà “gli ordini necessari per il loro destino”.
Mai il principe aveva adottato decisioni si fatte e “siccome quando io feci la riforma delle leggi criminali di Toscana credei di poterla concepire in quella maniera per l’indole dolce e quieta della nazione e vedendo ora di essermi ingannato con sommo mio dispiacere mi vedo obbligato di ordinare al consiglio di Reggenza di pubblicare prontamente un editto con cui esprimendo queste mie ragioni e il dispiacere con cui ho sentiti questi eccessi… mi vedo obbligato di ristabilire da qui in avanti e per i casi futuri la pena di morte da incorrersi da tutti quelli i quali ardiranno di sollevare il popolo o mettersi alla testa del medesimo per commettere eccessi o disordini”.
Il 30 giugno 1790 veniva pubblicato l’editto che ripristinava la pena di morte.
I condannati per i tumulti di Firenze furono 108 comprese 9 donne, tutti appartenenti al basso popolo fiorentino. Il presidente del Buon Governo, Giusti, si oppose alla pubblicazione del processo affermando che la causa era stata “risoluta collegialmente sola facti veritate inspecta, senza essersi dato luogo ai rei di difendersi”.
“Povere e semplici utopie” del Principe. Il Principe che non aveva solo cancellato dalla legislazione criminale la pena di morte e la tortura come istituto di procedura, ma altresì cassato il crimine di “lesa maestà”, di alto tradimento, di attentato alle prerogative sovrane, strumento per costruire accuse, qualsiasi accusa contro i nemici del potere, vista l’indeterminatezza e la vaghezza della fattispecie criminale in questione.
All’espulsione della barbarie, dell’abuso e della negazione della dignità umana dal sistema criminale, Pietro Leopoldo aveva altresì iniziato a provvedere con l’editto del 5 luglio 1782 che abolisce definitivamente il tribunale del S. Ufizio in Toscana. E si sa bene, da secoli, che recidere i tentacoli del potere della Chiesa può essere assai pernicioso… e la Chiesa non dimentica mai.
Finalmente la legge del 30 novembre 1786 con le parole testuali del Principe: “abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione della pena congiunta alla più esatta vigilanza per prevenire le ree azioni, mediante la celere spedizione dei processi e la prontezza e sicurezza della pena dei veri delinquenti invece d’accrescere il numero dei delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni e resi quasi inauditi gli atroci” …per cui “abolita per massima costante la pena di morte come non necessaria al fine propostosi dalla società nella punizione dei rei, eliminato affatto l’uso della tortura, la confiscazione dei beni dei delinquenti come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto e sbandita dalla legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di lesa maestà, con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi e fissando le pene proporzionate ai delitti”.
Un’ultima disposizione della medesima, sicuramente attinta dal Principe dalla luce di secoli futuri, concerneva l’indennizzo da accordarsi agli accusati riconosciuti innocenti.
CONTRORIFORMA
“Un’estrema dolcezza… e un sentimento di pietà e di compassione che scemi il grado di pena necessaria al pubblico esempio, indebolisce la forza e l’efficacia della legge, incoraggia gli uomini al delitto”. Questo si affacciò alla mente illuminata del Granduca Pietro Leopoldo “che abolì la pena di morte e volle che nessun delitto, anche di quelli che annunziano animo freddamente crudele e malvagio… fosse sottoposto a pena capitale”. “Infatti il dolce e mansueto carattere della nazione che si stabilisce causa della riforma doveva considerarsi qual fortunata conseguenza del rigore sanzionato dalla leggi e da questo… si doveva specialmente dedurre lo scarso numero dei delitti atroci in Toscana dove gli uomini, più che altrove erano spaventati dal timore della morte”. Ne deriva, conclude il dotto giurista (PIETRO RANUCCI Saggio per la riforma del nuovo codice criminale) “che si estenda dinuovo la pena capitale a tutti gli omicidi”. Vennero poi ristabiliti i delitti compresi nella ipotesi di “lesa maestà” con la comminazione della morte ignominosa ed infame applicabile anche alle azioni contro la religione dello stato.
Scritto da Fabio Toccafondi
PARTE PRIMA: La rivoluzione del Granduca.
PARTE SECONDA: La risposta del Principe